Cicerone contro Verre
Arte tra corruzione e ossessione
21 ottobre 2012
b2
Giulia Grassi
No
Nel 70 a.C. a Roma c'è stato un processo molto importante.
L'accusato era Gaio Licinio Verre: quando era governatore della Sicilia, tra 73 e 71 a.C., si era enormemente arricchito, rubando tutto quello che c'era da rubare; in più, aveva corrotto o intimidito chi cercava di opporsi ai suoi metodi. L'avvocato dell'accusa era Marco Tullio Cicerone: le orazioni da lui scritte (in Verrem, o Verrine) erano state così efficaci che Verre aveva preferito lasciare Roma prima della fine del processo, perché aveva capito che sarebbe stato sicuramente condannato.
Verre era un appassionato d'arte, e un collezionista. Ma aveva accumulato una fortuna in statue, argenti, quadri e mobili pregiati in modo illecito, per lo più sottraendo le opere ai legittimi proprietari con la violenza (un 'vizio' che aveva preso anni prima, quando era stato in servizio in Asia Minore)¹.
Per sostenere le sue accuse Cicerone elenca le opere rubate e gli artisti che le hanno realizzate, di origine greca. Le sue parole sono interessanti non solo perché ci informano sui capolavori amati dai collezionisti romani, ma anche perché ci fanno capire come fosse considerata la passione per l'arte greca nella società romana dell'epoca.
Tra le tante storie, racconta quella di Gaio Eio, a Messina. Prima dell'arrivo di Verre, dice, nella casa di Eio c'era una cappella privata molto antica con quattro bellissime statue di squisita fattura, universalmente note. E prosegue: "La prima era un Cupido di marmo, opera di Prassitele (è strano come abbia imparato anche i nomi degli artisti, mentre raccoglievo le prove a carico di costui); [...] dall’altra un Ercole di bronzo di fattura egregia, attribuito se non erro a Mirone (e l’attribuzione è sicura). [...] si trovavano inoltre due statue in bronzo di modeste proporzioni, ma di straordinaria eleganza, che rappresentavano nel portamento e nel modo di vestire quelle fanciulle che, con le braccia sollevate, sostengono sul capo un canestro con certi arredi sacri secondo il costume delle ragazze ateniesi: si chiamano appunto Canefore; ma l’artista che le ha fatte, chi era? Chi mai? Ecco, sì, buono il tuo suggerimento; dicevano che si trattava di Policleto. [...] Tutte queste statue di cui ho parlato, o giudici, Verre le ha portate via dalla cappella privata di Eio".
A leggere il racconto, Cicerone è uno che di arte non capisce un bel niente: gli scultori greci che nomina - Prassitele, Mirone, Policleto - erano, e sono, tra i più famosi dell'antichità, ma lui ne parla da 'incompetente'. Quando cita Prassitele, specifica che ha imparato il suo nome mentre conduceva l'inchiesta per il processo. Si mostra incerto nel nominare Mirone ("se non erro"). Quanto a Policleto, deve addirittura farsi suggerire il nome da qualcuno perché lui non se lo ricorda ("l’artista che le ha fatte, chi era? Chi mai? Ecco, sì, buono il tuo suggerimento; dicevano che si trattava di Policleto"). Perché questa falsa ignoranza da parte di un uomo che era, lui stesso, un collezionista che aveva riempito le sue ville presso Tuscolo, Pompei e Arpino di opere d’arte e che non badava a spese per acquistarle?
Fanciullo che legge Cicerone di Vincenzo Foppa (1427-1515), Collezione Wallace di Londra, pubblico dominio
La risposta ce la dà ancora Cicerone, quando in un'altra parte dell'orazione afferma che "I Greci hanno una straordinaria passione per queste cose, che noi [romani] disprezziamo". Ecco il punto: a quell'epoca chi amava l'arte era guardato con sospetto. Il vero romano doveva avere altre priorità, lasciando ad altri le sciocchezze come l'arte: un concetto che anni dopo il poeta Virgilio esprimerà in modo chiaro nell'Eneide: "Modelleranno gli altri con grazia maggiore il bronzo spirante di vita / (lo credo di certo), e vivi ricaveranno dal marmo i volti; / peroreranno meglio le cause, e i movimenti celesti / disegneranno con la canna, e il sorgere degli astri prediranno: / tu di reggere col tuo impero i popoli, o Romano, ricorda: / queste saranno le tue arti, e alla pace d'imporre una regola, / risparmiare i sottomessi e abbattere i superbi"².
L'ostilità dei tradizionalisti era però destinata a fallire. I Romani impareranno ad amare l'arte e il lusso attraverso le opere che arrivavano in città come 'bottino di guerra'. Diventeranno dei collezionisti accaniti e trasformeranno l'aspetto stesso di Roma, che diventerà una città monumentale e strapiena di capolavori. E la Grecia, conquistata, si prenderà la sua vendetta (vd Quando la Grecia conquistò Roma).
Cicero at Tusculum, di Georges Lebayle (1894)
¹ Su Cicerone e il processo a Verre esiste una bibliografia molto ampia. Uno dei contributi più recenti è di M. Paoletti, Verre, gli argenti e la 'cupiditas' del collezionista, in 'Quarte Giornate Internazionali di Studi sull'area Elima' (Erice, 1-4 dicembre 2000), Atti, Pisa 2003, II, pp. 999-1027 (con bibl. prec.).
² "Excudent alii spirantia mollius aera, / credo equidem, vivos ducent de marmore voltus, / orabunt causas melius, caelique meatus / describent radio, et surgentia sidera dicent: / Tu regere imperio populos, Romane, memento: / hae tibi erunt artes, pacisque imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos." (Eneide, VI. 847-853).